Rispettare non è un gesto di cortesia,
ma un modo di guardare il mondo.
E ogni essere umano merita questo sguardo.
Spesso sui social, soprattutto su LinkedIn, si leggono frasi come:
“Sii gentile con tutti, anche con chi pulisce”, oppure
“Tratta bene tutti, a prescindere dal ruolo”.
Parole che, a prima vista, sembrano cariche di buone intenzioni. E lo sono. Ma se le osserviamo con più attenzione, rivelano un pensiero ancora radicato nella gerarchia sociale.
Perché “anche con chi pulisce”? Chi ha detto che il valore di una persona si misura nel ruolo che ricopre?
Io credo che il rispetto non debba nascere da un giudizio, ma da un sentire profondo: la dignità è intrinseca a ogni essere vivente, non è concessa dal lavoro che fa, dal titolo che ha, o dal contesto in cui si trova.
Il rispetto autentico è rivoluzionario proprio perché non fa distinzioni.
Non ha bisogno di essere “insegnato”, semmai ricordato, come qualcosa che fa già parte di noi.
A volte, quando insistiamo troppo su chi “merita” gentilezza, rischiamo di fare l’opposto: stigmatizzare senza volerlo, sottolineando una differenza invece che annullarla.
Esperienza personale: quando il rispetto ci mette a nudo
Ricordo un periodo in cui lavoravo tante ore davanti al computer, al punto da pranzare in ufficio, da sola, spesso in silenzio.
Quando arrivava l’addetta alle pulizie, mi sentivo in imbarazzo. Non per lei, ma per me.
Mi affrettavo a pulire la mia postazione, quasi per non farle “lavorare sporco”, per non essere di peso.
La mia era soggezione, non umiltà.
Sentivo addosso una vergogna sottile e silenziosa, come se il mio stesso modo di vivere il lavoro fosse qualcosa da nascondere.
Eppure, quelle persone che venivano dopo di me, che facevano il loro mestiere in silenzio e con cura, hanno fatto qualcosa che non dimenticherò mai.
A volte trovavo piccoli regali sulla scrivania.
Un giorno, c’era anche un biglietto. Diceva semplicemente:
“Grazie per la tua umiltà.”
E io mi sono chiesta: davvero era umiltà, quella?
O forse era solo desiderio di non impormi, di non essere una di quelle che guardano dall’alto?
Forse era solo il bisogno di riconoscere che nessun ruolo definisce il valore, e che ogni gesto può creare un legame umano, anche senza parole.
Conclusione: il rispetto non è gentilezza, è verità
Ciò che ho imparato è che il rispetto autentico non è mai concesso, ma riconosciuto.
Non nasce da una forma di cortesia legata al ruolo, ma da uno sguardo che sa vedere davvero.
E questo sguardo, quando è sincero, non distingue tra chi dirige e chi esegue, tra chi parla in pubblico e chi lavora nel silenzio.
Spesso, sono proprio le persone impegnate nei compiti più pratici, produttivi, operativi, a sentirsi meno visibili.
Ma davanti ai miei occhi – e al mio cuore – non esistono gerarchie di valore.
Esistono persone. Esistono gesti. Esistono incontri.
E no, non dobbiamo rispettare qualcuno solo perché “potrebbe capitare a noi” o “le cose si possono capovolgere”.
Dobbiamo rispettare perché siamo esseri umani.
E se proprio vogliamo parlare di ruoli, ricordiamoci che a volte chi abbiamo davanti – con le mani immerse nella produzione e non nella progettazione – è forse molto più qualificato, sensibile o preparato di noi.
Il rispetto, quello vero, non ha bisogno di parole giuste.
Ha bisogno solo di uno sguardo pulito. E di una coscienza sveglia.