Il valore di un pensiero non sta nella sua origine,
ma nella sua verità.
E nel modo in cui riesce a toccarci.
Mi è capitato di leggere, sotto un post semplice e ben pensato, un commento che diceva:
“Sì, ma è un concetto creato con l’AI.”
Come se bastasse questa informazione a sminuire tutto il contenuto. Come se un pensiero, per essere valido, dovesse avere un marchio di autenticità umano.
Ma allora mi chiedo: da quando l’origine di un’idea ne determina il valore?
E soprattutto: se un pensiero è giusto, gentile, costruttivo, profondo cosa importa chi (o cosa) lo ha generato?
In realtà, dietro questa affermazione c’è un paradosso sottile ma inquietante.
Perché se affermi che un messaggio positivo non è credibile solo perché generato da un’intelligenza artificiale, stai indirettamente, e molto umanamente, screditando l’intera umanità.
Stai dicendo, in fondo, che non ci credi che un essere umano possa pensare qualcosa di così pulito, gentile, o ispirato.
Stai dicendo che certe parole non appartengono più al nostro mondo, come se l’empatia, l’equilibrio, il rispetto, dovessero suonare falsi per forza, perché noi non siamo più capaci di dirli così.
E allora viene spontanea una domanda:
Non sarà che l’intelligenza artificiale ci sta solo restituendo la parte più bella di noi stessi, quella che spesso dimentichiamo?
Non sarà che la stiamo rifiutando perché ci mette davanti a ciò che potremmo essere… ma non siamo più abituati a cercare?
Una bella idea è una bella idea. Un pensiero profondo tocca, indipendentemente da chi l’ha scritto
Se una frase ci fa riflettere, commuovere, riconciliarci con qualcosa, quella frase è vera. Punto.
Il valore non sta nella firma. Sta nell’effetto che ha su di noi.
E forse, invece di preoccuparci tanto di smascherare le parole “non umane”, dovremmo chiederci quando abbiamo smesso di credere che parole così possano ancora appartenere a noi.